Introduzione
di Luisa Falchi
Il Catasto Gregoriano è il primo catasto generale geometrico particellare dello Stato pontificio: fu promosso da Pio VII nel 1816, nell'ambito di una complessiva riorganizzazione amministrativa dello Stato, e prese il nome di Gregoriano perché attivato da Gregorio XVI nel 1835.L'articolo 191 del Motu Proprio di Pio VII del 6 luglio 1816 disponeva che si procedesse alla compilazione di "nuovi catasti regolati a misura e stima, con un modulo comune" in tutto la Stato, ed affidava tale operazione alla neoistituita Congregazione dei Catasti: un organismo centrale avrebbe, perciò, provveduto a stabilire norme e procedure, a dirigere le operazioni di rilevamento cartografico, ad elaborare criteri uniformi ed obiettivi di stima dei fondi rustici ed urbani, sottraendo il censimento dei beni immobili all'arbitrarietà di denunce giurate ed alla disomogeneità dell'operato di commissioni locali.
La Presidenza del Censo fu l'ufficio che venne costituendosi attorno alla figura del Presidente della Congregazione dei Catasti, con funzioni paragonabili a quelle di un vero e proprio dicastero centrale. In seno alla Presidenza operò dal 1816 fino al 1838 un Direttore generale del Catasto (o del Censo) con compiti di direzione tecnico-operativa, riassunti, dopo la morte del titolare Luigi Marini, dallo stesso Presidente.
Strumenti normativi essenziali all'elevazione del nuovo catasto furono il Regolamento sulla misura dei terreni e formazione delle mappe redatto dal Direttore del Censo ed approvato dal Presidente della Congregazione di Catasti del 22 febbraio 1817, il Motu proprio sulle stime dei fondi rustici del 3 marzo 1819, che fissava i criteri base per tale operazione, ed il relativo Regolamento applicativo, emanato dal Presidente il successivo 20 marzo.
Modalità di realizzazione - Preliminarmente, inoltre, la Congregazione dei catasti stabilì che per l'intera operazione fosse adottato il sistema metrico decimale. Lo Stato pontificio mancava infatti di un sistema di misura uniforme e l'adozione del rubbio romano, composto da 3703 canne architettoniche quadrate, avrebbe richiesto complesse operazioni di calcolo, rese invece agevoli dal sistema decimale. Gran parte dei territori compresi nelle Legazioni (Bologna e le Romagne) e nelle Marche, poi, erano già corredati di mappe e brogliardi descrittivi redatti con l'uso del sistema metrico decimale dal governo dell'ex Regno Italico: l'adozione dello stesso sistema consentiva di acquisire tale materiale senza necessità di complesse rielaborazioni, riducendo in modo significativo l'entità del lavoro da affrontare. La recezione nell'ordinamento catastale pontificio della catastazione già realizzata dall'ex Regno Italico rese in ogni caso più complessa l'ordinamento del materiale prodotto, che di fatto risulta dal sovrapporsi di più criteri di ordinamento e suddivisione territoriale, stratificatisi nel tempo.
La misura lineare adottata fu quindi la canna censuaria corrispondente al metro e suddivisa in 10 palmi (dm), pari a 100 once (cm) o 1000 minuti (mm). Per le superfici, si adottarono il quadrato di 10 tavole (corrispondente all'ettaro e cioè a 10.000 m2), la tavola di 1000 canne quadrate (pari a 1000 m2) e la canna quadrata (1 m2), a sua volta suddivisa in palmi, once e minuti quadrati. Rispetto al periodo francese mutavano i nomi ma non la sostanza.
Anche il Regolamento sulla misura di terreni e formazione delle mappe è naturalmente tributario dell'esperienza maturata nell'ex Regno d'Italia e ricalca in gran parte le norme che avevano presieduto all'elevazione delle mappe ad alla compilazione dei brogliardi nei territori delle Legazioni e delle Marche. Minuzioso e puntuale, indica le mansioni di tutte le figure previste per l'espletamento delle diverse fasi del lavoro, definisce gli strumenti da utilizzarsi, le procedure per verificarne la costante affidabilità, le modalità di rilevazione, i segni ed i colori da usare e la terminologia da adottare nella descrizione delle particelle. Ciascuna mappa, orientata verso il nord, deve comprendere un solo territorio comunale e, nel caso di comuni molto estesi, il territorio deve essere prima suddiviso in diverse sezioni, che sono oggetto di distinte mappe ed assumono la denominazione del toponimo più rilevante in esse compreso.
Per l'esecuzione del lavoro si decise di ricorrere allo strumento dell'appalto che garantiva certezza di costi e celerità di realizzazione: la correttezza dei risultati sarebbe stata garantita dalla direzione centralizzata dei lavori, dall'operato di verificatori nominati dalla Presidenza del Censo e dall'intervento in loco di assistenti dei Comuni. La rettifica degli eventuali errori, sarebbe stata assicurata dalla facoltà di ricorso riconosciuta ai possessori dei fondi, entro un congruo tempo dalla pubblicazione delle mappe, e dalla posposizione del pagamento di un terzo del convenuto ad un anno dopo tale pubblicazione. Si mirava ad affidare l'appalto ad ingegneri milanesi, che avessero già lavorato al catasto dell'ex Regno Italico: ma l'opposizione degli ambienti romani fece sì che si stipulassero due distinti contratti.
Il 4 marzo del 1817 fu assegnata la rilevazione di tutte le province dello Stato, con esclusione del Suburbio di Roma e dell'Agro romano, agli ingegneri milanesi Costantino Del Frate, Felice Lorini, Pietro Locatelli e Pietro Oggioni, mentre il 5 settembre 1817 fu stipulato il contratto per Suburbio ed Agro con i geometri romani Tobia Sani, Aloysio Mazzarini, Pietro Sardi e Geronimo Felici. In entrambe i casi il Regolamento citato era parte integrante del contratto stesso.
I lavori di rilevazione cartografica si conclusero nel 1821 ma la complessità delle operazioni di stima allungarono i tempi per l'attivazione del catasto, che avvenne solo nel 1835, con l'adozione di un estimo provvisorio.
Il materiale documentario - Le mappe, alla scala 1:2000 - salvo quelle di centri urbani particolarmente rilevanti o estesi, elevate alla scala 1:1000 - dovevano essere fornite in due esemplari: un originale, in fogli rettangoli uniti tra loro ed una copia in fogli rettangoli sciolti. Dovevano poi essere prodotte due ulteriori copie in scala ridotta a 1:4000 o a 1:8000 (le "mappette"), a seconda dell'estensione del territorio rappresentato, corredate della riproduzione in scala originale del "caseggiato" ovvero dei centri abitati, posta in margine o in allegato. Ogni particella catastale, raffigurata in mappa con il suo perimetro ed identificata da un numero assegnatole all'interno di una progressione numerica unica per ciascuna mappa, veniva poi descritta nel registro catastale o brogliardo, in cui era indicato anche il nominativo di chi la possedeva. I luoghi sacri, le fortezze, i luoghi pubblici o "di sovrana pertinenza" sono indicati con lettere alfabetiche che seguono, nei registri, la descrizione delle particelle numeriche. Gli appaltatori erano tenuti a fornire tanto l'originale che la copia di detto brogliardo, compilato secondo i modelli predisposti dal dicastero del Censo. La copia del brogliardi e quella delle mappe originali, in rettangoli sciolti, erano destinate alle Cancellerie del Censo, uffici periferici con distrettuazione propria, distribuiti sul territorio ed incaricati di mantenere costantemente aggiornato il catasto dei comuni di loro competenza. La restante documentazione era destinata, invece, ad essere conservata nell'Archivio delle mappe della Presidenza del Censo. Le mappe, mappette e brogliardi conservati presso l'Archivio di Stato di Roma provengono quindi dall'archivio della Presidenza del Censo mentre quelli conservati presso molti altri Archivi di Stato provengono dagli archivi delle rispettive Cancellerie del Censo.